mercoledì 25 febbraio 2015

Questione di sopravvivenza


Ho fatto naufragio senza tempesta in un mare nel quale si tocca il fondo con i piedi.
  
(F. Pessoa)
 
E' buio pesto e non si vede a un metro, siamo in sette in acqua, con indosso il salvagente arancione che ci cinge il collo ed il busto. Spruzzi d'acqua fredda ci investono da tutte le parti ed il rumore di tempesta è così forte da costringerci ad urlare anche ad un metro di distanza. Ci stringiamo a cerchio tenendoci con le braccia e ci contiamo per verificare di essere tutti quelli che dovremmo. Senza perdere il contatto fisico ci avviciniamo alla zattera, individuandola dal tenue riflesso sulle bande catarifrangenti poste sul tetto. Ci aggrappiamo al cordino di sicurezza che gira tutt'attorno e poi, non senza difficoltà per i vestiti zuppi e l'impaccio del salvagente, saliamo a bordo uno ad uno.
Dentro è tutto fradicio, sul fondo ci sono quattro dita d'acqua che abbiamo imbarcato salendo e che continua a sgocciolare dai nostri indumenti. Batto i denti dal freddo, proviamo a sgottare, ma non abbiamo una sassola e con le mani è più l'acqua che ricade dentro che quella che finisce fuori. Rinunciamo e chiudiamo la chiusura lampo della piccola apertura di ingresso per evitare che gli spruzzi entrino copiosamente all'interno. Ci contiamo nuovamente e mentre mi domando quanto tempo dovremo restare qui dentro, si comincia a sentire un rumore assordante di elicottero. Un potente fanale sopra di noi spara improvvisamente un fascio di luce verso il basso, guardo fuori e vedo che stanno calando un cavo d'acciaio. A turno ci tuffiamo in acqua per raggiungere la fune ad una decina di metri da noi. Quando tocca a me, mi assicuro di aver agganciato bene l'imbracatura, poi alzo un braccio e faccio ruotare la mano per segnalare che sono a posto e posso essere issato. Gli schizzi mi sferzano la faccia, nel momento in cui sento che sto uscendo dall'acqua lascio andare braccia e gambe e mi abbandono completamente: ho fatto tutto quello che dovevo e tutto ha funzionato.
 

Gli strumenti di tortura
Beh, certo che ha funzionato, eravamo nella piscina del Centro di Addestramento Soccorso e Sopravvivenza di Anzio, dove ho frequentato un corso ISAF (International Sailing Federation) di due giorni, ma la simulazione era di un realismo impressionante, con effetti speciali degni di Hollywood. Sì, era tutto finto, o quasi tutto, il freddo era vero; siamo in inverno e passare un pomeriggio ad entrare ed uscire dall'acqua non è stato piacevole, è stato anzi di per sè una lezione: l'ipotermia è uno dei pericoli maggiori in caso di naufragio. Il motivo che mi ha spinto a frequentare questo corso, obbligatorio per le regate d'altura ma non per la crociera, è che certe cose, certe procedure, è bene provarle quando si è in tranquillità in modo di averne già dimestichezza se mai dovesse capitare qualcosa di brutto, e non correre quindi il rischio di perdere tempo o sbagliare manovra, peggiorando così situazioni già pericolosissime. I miei compagni di corso, un paio di dozzine, sono distribuiti fra regatanti, velisti non agonisti e qualche skipper professionista. Ci sono anche alcuni ragazzi che lavorano a bordo di grosse navi, quelle che dopo indebiti "inchini" faticano ad avviare procedure corrette di salvamento e causano molte vittime invece evitabili. Insomma, in caso di naufragio o altri gravi problemi a bordo, direi proprio che la conoscenza salva, l'aver provato in sicurezza le manovre da effettuare, salva ancora di più.
 

Nuoto sincronizzato
Non è stato un corso all'acqua di rose, uno di quelli dove si gioca a a fare finta, bensì lezioni teoriche ed una serie di simulazioni delle situazioni tipiche di difficoltà in mare, dal naufragio, alla zattera, all'incendio a bordo. Una cabina con dentro alcuni di noi a turno è stata fatta cadere in acqua e poi rovesciata sottosopra; è incredibile come sia facile perdere l'orientamento dovendo uscire da un finestrino sott'acqua, tanto che uno dei primi è uscito dalla parte sbagliata rischiando di incastrarsi sotto la cabina stessa. Stare seduti al chiuso e sentire l'acqua che sale rapidamente fino a sommergerci non è una bella sensazione, il panico che scatta può far precipitare in un attimo una situazione già di per sè pericolosissima, bene quindi provarla in piscina con un sub pronto ad assisterci in caso di problemi. Anche prendere dimestichezza con la zattera è fondamentale: quanti velisti l'hanno mai vista aperta dal vero? E salirci sopra, impacciati da vestiti e salvagente è tutt'altro che semplice, soprattutto in presenza di mare formato. Penso a Fogar, alla sua terribile esperienza, raccontata quotidianamente dai telegiornali della mia infanzia, agli interminabili giorni passati alla deriva da lui e quell'altro grande velista che era Mauro Mancini, alla fine drammatica di quella vicenda. Penso a lui e ai tanti diportisti che si sono ritrovati su un metro quadrato di tela gommata, unico sottile diaframma fra loro e l'abisso, e mi chiedo: ma quanto si può resistere così? Al di là delle ovvie considerazioni sull'età e la preparazione atletica delle persone, c'è un fatto su cui riflettere: non siamo più abituati alla sofferenza, la mia generazione, almeno nel mondo occidentale, ha vissuto di agi, magari modesti, non di privazioni. Per provare sofferenza fisica abbiamo fatto sport di resistenza, ma era questione di poco, un'ora o due, poi c'era sempre la doccia e tutti i comfort a cui siamo abituati. Penso ai miei figli, ancora meno di me avvezzi alla sofferenza, una generazione sempre iperprotetta dalle famiglie.
 

Appeso ad un filo
E poi la pretesa che abbiamo che sempre tutto funzioni perfettamente, che in caso di problemi ci sia sempre un bottone da premere che in un istante ci catapulti fuori, come il seggiolino degli aerei da caccia, nelle braccia soffici ed accoglienti di qualcuno pronto a salvarci. Un po' quello che è successo con la Norman Atlantic, in fiamme col mare in burrasca, ed i soccorritori in evidente difficoltà, non per loro incapacità, ma per la situazione oggettiva. Eppure non sono mancate le polemiche, essere salvati perfettamente integri è per qualcuno un diritto inalienabile, dovunque ci si trovi, ed un solo capello torto fa sentire in dovere di intraprendere cause legali contro chi di quel capello ha minato la salute. Chi va per mare sa che non è così, non esistono certezze, esistono procedure di salvataggio ma esiste la forza della natura, contro cui continuiamo ad essere piccoli ed insignificanti. Dopo la simulazione del sollevamento con l'elicottero e dopo un pomeriggio passato con i vestiti zuppi, finalmente a sera una doccia calda. Nello spogliatoio del centro, mentre mi lascio scrociare l'acqua addosso lungamente, penso che se non fosse stata una simulazione, ora starei al freddo su un velivolo, con il comfort ancora lì da venire. Il freddo mi ha sempre fatto paura in mare, fa perdere lucidità, sto sempre attentissimo a non raffreddarrmi, a non dissipare il calore, coprendomi sempre anticipatamente, soprattutto durante le navigazioni notturne.
 

Keep in touch!
Durante una lezione è squillato un telefono, era Matteo Miceli. Sì, proprio lui, quello che sta facendo il giro del mondo da solo con due galline, anzi una, l'altra è passata dopo poche miglia a miglior vita, gettata in mare senza neppure la consolazione di aver insaporito, con il proprio sacrificio estremo, un brodo domenicale. Collabora con il centro, è una telefonata programmata, ci racconta della sua esperienza poi si presta molto cortesemente a rispondere a qualche domanda sulla sicurezza. La sua voce arriva forte e chiara attraverso il telefono satellitare, è ai nostri antipodi, a poche miglia da Capo Horn, il terrore di tutti i bastimenti dell'antichità, ci riferisce di onde di 8 mt e vento a 70  nodi, una mostruosità, eppure sembra tranquillissimo come un diportista qualunque uscito in una bella giornata di sole estivo a fare il bagno fuori dal porto. Senza nulla togliere al prodigio di poter chiacchierare amabilmente con uno che sta in mezzo ad una tempesta all'altro capo del mondo e senza assolutamente negare il vantaggio in termini di sicurezza che questa possibilità offre, mi chiedo: ma uno, dove deve andare ormai per stare veramente lontano dalle seccature? Me lo sono immaginato alla prese con una strambata nella tempesta, distratto da uno squillo: pronto, sono l'amministratore, non ha saldato la rata del termosifone di marzo. Oppure: sono il commercialista, il mese prossimo c'è l'IVA da pagare. O ancora: tesoro, sono mamma, attento a non prendere freddo. Non dico per dire, sono cose che nel mio piccolo ho provato anch'io. Più di una volta è capitato che nel bel mezzo di una situazione difficile oppure incantevole, squillasse il telefono per portare a bordo qualche rottura di scatole o anche semplicemente una distrazione, un elemento estraneo che ha spezzato un'emozione. E' uno dei drammi dei giorni nostri, siamo sempre costantemente in contatto con la nostra rete di conoscenze, digitiamo sui display dei nostri telefonini alla ricerca della soluzione di qualunque nostro piccolo o grande problema, in pratica non siamo mai al 100% dove siamo, anzi spesso siamo semplicemente davanti ad una quinta diversa ma con la testa sempre in quel medesimo iperspazio dal quale mentalmente non siamo veramente partiti. Durante il prossimo viaggio, è una promessa con me stesso, l'uso del cellulare e di Internet saranno ridotti al minimo.
 

Sopravvissuti!
Ritiro l'attestato di partecipazione con su stampato il mio nome, scambio qualche recapito con alcuni compagni di corso, poi torno a casa, stanco ma decisamente soddisfatto. Ho respirato nuovamente, dopo qualche mese, aria di mare, di vela: malgrado sia sbarcato solo tre mesi fa, stavo già andando in astinenza. Ora è tempo di guardare avanti, ai tanti lavori di manutenzione da fare a bordo di Piazza Grande, alla rotta che farò, al mare che si aprirà sotto la mia prua. Intanto, però, dalla finestra di casa vedo le macchine girare veloci attorno alla piazza lasciando dietro di sè una scia di puzza e rumore. Chiudo la persiana e mentre mi preparo per andare a dormire penso che anche questa è una questione di sopravvivenza.





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