giovedì 4 agosto 2016

Fuga di mezzanotte (prima parte)


Il popolo deve stare allerta e vigile. Non deve lasciarsi provocare, né lasciarsi massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste

(S. Allende)

La fresca notte odessita si distende sul porto della città, sulle imbarcazioni all'ormeggio, sulle piccole navi passeggeri che ogni sera fanno rientro dal loro consueto giro con i turisti, sui mercantili in attesa di terminare le operazioni di carico o scarico, sulle persone che passeggiano lungo la banchina, sulle coppie che affidano alla brezza i loro baci e le loro promesse d'amore, sul rivenditore di bibite e caffè che staziona ogni giorno davanti all'ingresso del mio pontile. Faccio due passi per rinfrescarmi anch'io e trovare un poco di sollievo dopo la calura del giorno che la bonaccia di oggi ha reso ancora più asfissiante. Il beep del telefono richiama la mia attenzione ed infilo automaticamente la mano in tasca per estrarlo: un messaggio da parte di Ahsen, la mia cara amica di Istanbul.
«Ci sono soldati dappertutto, il Bosforo è bloccato, sta succedendo qualcosa di grosso.»
Faccio scorrere i polpastrelli sullo schermo del telefono e apro un paio di quotidiani: «Colpo di Stato in atto in Turchia». Smetto di camminare e mi fermo un istante a pensare e, oltre a mille riflessioni politiche e generali, ne faccio una personale e schietta: bella rogna!
  
Carta, forbice, sasso
Il Mar Nero è un bacino collegato con il Mediterraneo unicamente attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e per fare rientro a casa devo passare obbligatoriamente di lì. La possibilità di risalire il Danubio per duemilacinquecento chilometri e poi trasferire Piazza Grande da Vienna a Trieste con un TIR non la prendo neanche un attimo in considerazione, visti i tempi e i costi per praticarla. Certo, dove mi trovo ora sono al sicuro ma mi viene da sorridere al pensiero che l'Ucraina, che sembrava essere il luogo politicamente più pericoloso di questa rotta, sia improvvisamente diventata il più tranquillo: tutto è sempre molto relativo e la sorte, se non la casualità, è a volte il governo principale della nostra vita.
Il telefono nel frattempo ha preso a suonare ripetutamente: amici e parenti mi cercano per accertarsi della mia incolumità. Tranquillizzo tutti, anche attraverso una sorta di comunicato ufficiale su Facebook, sentendomi un po' ridicolo nel farlo, anche se certe dimostrazioni d'affetto fanno decisamente piacere. Il fatto che si stiano preoccupando anche persone che sanno esattamente dove mi trovo, ovvero a oltre seicento chilometri dalla Turchia, mi conferma l'idea che per i più il Mar Nero è una sorta di voragine sconosciuta, una specie di Hic sunt leones, tanto vaga quanto idealmente e genericamente pericolosa.
Resto un paio d'ore a seguire l'andamento delle vicende attraverso Internet, poi, nella fatalistica attesa che si chiariscano le cose, torno in barca, dove un bicchiere di un liquore che ho comprato ieri, buono e di ignota fattura, mi addolcisce la bocca e i pensieri. Faccio un brindisi al fascino di Odessa e mi ritiro in cuccetta.
  
Recep Tayyip Erdoğan
Per chi nutre sentimenti democratici, l'idea di un colpo di Stato è quanto di più aberrante possa esistere. Il fatto che qualcuno si impadronisca del potere usando la forza e rovesciando un governo leggittimamente eletto cozza in modo violento contro i più elementari principi di giustizia cui siamo stati allevati. Ho sempre impressa in mente l'immagine di Salvador Allende che esce dal Palazzo della Moneda con in testa un elmetto che gli sta scivolando via di lato: un drammatico attimo di smarrimento fissato per sempre da una foto in bianco e nero che è stata per decenni l'icona ignominiosa di quella lunga notte della democrazia. Come Allende, anche Erdoğan è salito al potere con elezioni democratiche ma le similitudini fra i due si esauriscono qui, perché il secondo ha intrapreso da tempo una sistematica delegittimazione dei poteri a lui scomodi, rinchiudendo la democrazia nel recinto sempre più stretto della delega plebiscitaria a un uomo solo: lui. Questo induce una riflessione: si possono ancora chiamare democrazie quelle società, quelle nazioni in cui la stessa persona governa indiscussa per decenni, confinando le opposizioni, sia politiche che sociali, in spazi progressivamente sempre più ristretti fino a soffocarle? La Turchia di Erdoğan, la Russia di Putin, il Venezuela di Chavez e Maduro, hanno ancora i crismi della democrazia o sono qualcosa di diverso che della democrazia mantiene solo quella parvenza datale da consultazioni elettorali sempre più fasulle? In altri termini: se con un atto antidemocratico si rovescia un governo formalmente democratico che sta riducendo la democrazia a un contenitore vuoto, dobbiamo comunque indignarci e rifiutarlo per principio o possiamo considerare che sia forse l'ultima chance di salvare la democrazia stessa? Confesso di non avere la risposta, l'evoluzione della geopolitica planetaria degli ultimi venti anni ha fatto saltare molti degli schemi di lettura della realtà che abbiamo usato finora. O almeno che ho usato io.  

Mustafà Kemal Atatürk
Va detto che la Turchia ha una storia di colpi di Stato che si è ripetuta più volte, durante il XX secolo, secondo un copione consueto e di contenuta violenza. Le ragioni vanno ricercate nell'ordinamento dello Stato dato da Atatürk dopo il rovesciamento del sultanato ottomano. A sorvegliare sul corretto svolgimento della vita democratica e, soprattutto, sul rispetto del dettato costituzionale egli ha posto l'esercito. Detta così suona male, ma tutto sommato ha funzionato. L'esercito, ogni volta che ne ha ravvisato gli estremi, si è impadronito del potere e ha rimesso le istituzioni nella carreggiata della costituzione per poi restituire il comando alla democrazia. Al fine di scongiurare il pericolo di un rovesciamento violento, Erdoğan ha fatto fuori tutti i vertici delle Forze Armate da sempre nelle mani dei kemalisti, i seguaci di Atatürk, per sostituirli con persone di sua fiducia. La stessa cosa ha fatto con la magistratura, con la stampa e progressivamente con tutte le istituzioni, invadendole in modo tentacolare, fino a svuotare completamente la democrazia di quel concetto fondamentale che è alla base della sua stessa esistenza e cioè il rispetto delle minoranze, senza il quale tutto si riduce a tre lupi e una pecora che votano, democraticamente, chi mangiare per cena. Ha anche creato una guardia presidenziale di fedelissimi, ben pagata e ben equipaggiata, alle sue dirette dipendenze, per avere un a forza armata in grado di difenderlo da eventuali attacchi dei militari.
 
Carretto kemalista
La società turca di questi anni è tendenzialmente spaccata in due: da un lato i kemalisti, la parte più istruita e progressista, quella che è già pienamente europea da decenni e che dall'avvento della Repubblica detiene le leve del potere e dell'economia. Vive soprattutto nelle grandi città e lungo la costa egea. Dall'altro c'è quella fetta di popolazione più tradizionalista, culturalmente messa nell'angolo da Atatürk, desideroso di sbarazzarsi di qualunque residuo dell'era ottomana, e che vive soprattutto sulle montagne e nei villaggi dell'Anatolia. A dare voce e riscatto a quest'ultima ha pensato, negli ultimi quindici anni, Erdoğan. Per fare un esempio: la legge turca vietava l'uso dell'eşarp, il fazzoletto che copre i capelli delle donne turche (attenzione: un fazzoletto come quello delle nostre nonne, non un burqa), negli uffici dell'amministrazione pubblica, fatto che ha impedito a milioni di persone la possibilità di accedere alla carriera amministrativa; l'attuale presidente ha rimosso il divieto. Non saprei dire quanto dei legami di Erdoğan con la religione sia genuino spiritualismo e quanto invece calcolo politico, resta il fatto che il suo bacino elettorale è quello che frequenta le moschee. Il problema, come avviene in quei paesi, compreso il nostro, dove la religione guadagna spazi politici, è che i governanti non resistono alla tentazione di trasformare il peccato in reato. In Turchia è stata emanata una legge che vieta agli studenti fuori sede di dividere l'appartamento con persone di sesso diverso dal proprio. Un po' come è successo da noi con la fecondazione eterologa o con le unioni civili: perché molti pretendono di imporre la propria etica agli altri invece di limitarsi a seguirla, anzi spesso non seguendola affatto? La prima volta che sono stato in Turchia, l'adorazione di Atatürk m'era sembrata eccessiva, soprattutto considerando i lati oscuri della sua biografia politica, quali il genocidio degli armeni, la questione curda o quella greca. Oggi capisco che tutto quello sventolio di bandiere con la sua effige aveva soprattutto il senso del baluardo contro l'integralismo religioso e che in questo momento quella diga è a rischio di crollo. Ed è anche la ragione per cui, nelle prime ore del golpe, i carri armati hanno in qualche strada raccolto gli applausi di quella parte di popolazione che si sente soffocata, anzi lo è.
  
E sì, ha proprio ragione!
L'indomani, appena alzato, con la moka che ancora borbotta sul fornello, cerco immediatamente le notizie dalla Turchia: il golpe è fallito ed Erdoğan promette vendetta. Una parte di me è forse un po' delusa ma certamente con un paese così diviso, esattamente a metà, c'era il rischio concreto che tutto si trasformasse in una guerra civile e la Turchia si riducesse nelle condizioni della Siria. Resta da vedere cosa succederà ora ai kemalisti e anche cosa succederà a me, visto che è stato decretato lo Stato di emergenza per trenta giorni, una misura che generalmente riduce i diritti e le garanzie delle persone comuni, anche di quelle che se ne vanno in giro in barca per i fatti loro. Non ho fretta di andare, comunque, quindi deciderò nei prossimi giorni, in base all'evoluzione delle cose, cosa fare. Anche se spesso ci sembra che le vicende della Storia siano astratte e lontane, soprattutto da quando l'Italia vive in una discreta condizione di tranquillità e benessere o perché semplicemente gli effetti non ricadono direttamente su di noi, questa volta ho un'immediata conseguenza: il direttore di SVN, la nota rivista di vela, mi comunica che, a seguito di quanto sta avvenendo in queste ore, al momento di chiudere il numero hanno deciso di rinviare la pubblicazione dell'articolo che ho scritto per loro sulla Turchia, vista dal punto di vista del viaggiatore di mare. Comprendo e condivido perfettamente le ragioni di questa scelta, ma certamente me ne rammarico. "Il personale è politico", si diceva negli anni Settanta. "Il politico è personale", pare essere la versione aggiornata agli anni Duemila.
  
Istanbul, Ortaköy
Un po' per curiosità, un po' nella remota ipotesi di dover lasciare Piazza Grande qui, chiedo a Oksana, la manager dello Yacht Club di Odessa, di mostrarmi il luogo dove vengono rimessate le barche durante l'inverno. È una specie di hangar molto protetto, con il solo problema di dover disalberare per entrarci dentro ma, visto il basso costo della vita in Ucraina, l'eventualità avrebbe i suoi risvolti positivi. Nel frattempo studio la rotta da seguire, tenendo conto oltre che del meteo e delle zone normalmente interdette alla navigazione, come l'area del Mar Nero a ridosso del Bosforo, delle normali consuetudini burocratiche di entrata e uscita dai paesi che attraverserò e della necessità o meno di uno stop in Turchia. Insomma, invece di pianificare il percorso in base agli elementi naturali, mi trovo a dover contrastare le difficoltà create dagli uomini. La questione più spinosa è come transitare legalmente nei mari turchi senza fare l'ingresso nel paese. Tutte le volte che sono entrato nelle acque territoriali di una nazione ho sempre fatto le pratiche di entrata al primo porto utile: bandiera gialla alla crocetta di dritta, chiamata sul VHF e via. Arrivando però dalla Bulgaria, il primo porto turco, Igneada, non è porto di entrata, quindi sarei costretto a fermarmi a Istanbul, dove avrei due opzioni: la prima, andare al marina di Ataköy, il più caro della città, dove so che per circa cinquecento euro un agente può fare le pratiche per me; la seconda, provare a farle da solo, ma gli uffici sono sulle sponde opposte della città e davanti alla Chamber of Shipping, l'autorità che rilascia il Transit log, non c'è un molo per ormeggiare. Insomma, non esiste la possibilità concreta di mettersi in regola senza sborsare una cifra assurda e senza evitare di fermarsi a Istanbul, dove le ultime notizie riportano le piazze piene dei seguaci di Erdoğan, esaltati da quella che considerano ormai una loro vittoria.
 

Controlli di polizia in Grecia, molto informali
Esiste un trattato del 1938, il Trattato di Montreaux, che disciplina il transito delle navi lungo gli stretti turchi e il Mar di Marmara. Essendo una carta di ottanta anni fa, parla di navi militari, mercantil e sommergibili, distinguendo fra quelli appartenenti ai paesi rivieraschi del Mar Nero e a quelli di paesi terzi, ma non parla di imbarcazioni da diporto. Lascia inoltre alla Turchia il diritto di interdire l'accesso in situazioni particolari, come appunto potrebbe essere questa. Provo a chiedere informazioni in giro ma ottengo risposte diverse e contraddittorie. Mi metto in contatto con l'Ambasciata Italiana ad Ankara, la quale mi rimanda al Consolato Italiano a Istanbul, dove una signora molto gentile, ascoltata la mia storia, si attiva per darmi le risposte che mi occorrono. Avere un filo diretto con la diplomazia del nostro paese mi dà un pizzico di sicurezza in più nel caso qualcosa dovesse andare storto. La sera stessa vengo richiamato al telefono: seguendo il canale di traffico che va dal Bosforo all'Egeo, attraversando il Mar di Marmara, posso transitare senza fare alcuna pratica in Turchia. Sono circa duecento miglia, non poche da fare d'un fiato, anche perché si sommano a quelle da percorrere prima e dopo in Bulgaria e in Grecia. In tutto sono trecentoquaranta miglia, più o meno tre giorni e tre notti di mare per Piazza Grande. Sempre che la situazione in Turchia non precipiti e non venga bloccato completamente il traffico marittimo. Intanto, diplomazia italiana efficiente, oltre che cortese!
  
Lo Yacht Club di Odessa
Al di là di tutto, delle difficoltà contingenti, dei macrosistemi politici, delle avversità di qualunque natura, c'è sempre un momento in cui chi naviga sente il richiamo del mare. Succede che un riflesso di sole sull'orizzonte, un gabbiano che volteggia nel cielo azzurro o semplicemente un guizzo nel fondo dell'anima ci dicano chiaramente che è giunto il momento di andare. Così, una mattina, saluto tutti e vado alla Polizia di Frontiera, dove ritrovo la stessa poliziotta gentile e carina di quando sono arrivato, poi mollo le cime che vincolano Piazza Grande al pontile e restituisco a lei e a me il fascino incommensurabile della libertà. Una libertà che, dopo che ho percorso neanche cento metri, mi viene tolta dall'Autorità Portuale:
«Piazza Grande, keep your position, you can't leave the port because a big ship is entering».
Non importa, non ho fretta, devo fare parecchie miglia e arrivare, se ci riesco, direttamente in Bulgaria, così da evitare di fare entrata e uscita in Romania. Passo una buona mezzora a fare avanti e indietro in attesa del via libera poi, finalmente, dal VHF arriva l'Ok che aspettavo e con un affondo di gas guadagno il mare aperto. Subito mi prende quel senso di leggerezza che provo quando sono in mare da solo e il mare sembra assecondarmi perché poco dopo arriva un branco di delfini ad accompagnare la mia rotta per un tratto.
     
Birre senza frontiere. Almeno loro!
L'indomani mattina, dopo un giorno e una notte di navigazione, mi trovo al traverso di Sulina. Sono in acque rumene ma, non avendo intenzione di fermarmi, proseguo dritto con nonchalance. Dal Danubio vedo uscire un'imbarcazione molto veloce. La osservo bene e noto l'inconfondibile livrea delle motovedette della Guardia Costiera: punta verso di me. Sono al lasco con solo il genoa e avanzo a poco più di cinque nodi, aspetto che eventualmente mi dicano qualcosa per sventare la vela e rallentare. Sono ormai a pochi metri da me, mi guardano, li osservo anch'io, poi mi chiamano via radio:
«Sailing boat, sailing boat...».
Affero il microfono e rispondo: vogliono sapere chi sono, dove vado, eccetera. Cerco di tenermi sul vago, non perché abbia qualcosa da nascondere ma perché in effetti non sono sicurissimo di non avere la necessità di fare una sosta in qualche porto rumeno. Forse mi tengo un po' troppo sul vago perché a un certo punto mi chiedono:
«So, what is your intention in Romanian waters?».
Bella domanda! Navigare. Sarebbe questa la risposta più sensata, quella più vera ma, temendo che non si accontentino, dico chiaramente che deciderò se fermarmi o meno da qualche parte in base al meteo e alla stanchezza. Visto che devo fare almeno un paio di giorni di navigazione, la risposta è plausibile; infatti mi salutano e vanno via. Alla fine, però, quando sono al traverso di Mangalia, decido che una sosta me la posso concedere, anche se ciò comporterà di affrontare due volte la burocrazia in ventiquattro ore. Mi sento quasi di casa in questo porto: ritrovo l'Harbour Mistress dell'andata e ritrovo anche il tizio che mi aveva consigliato l'Ucraina per il basso costo della prostituzione. Sono tentato di dirgli che una volta, a Odessa, hanno provato ad abbordarmi due così brutte che non dubito che fossero poco esose, ma lascio correre.
  
In navigazione
Quando riparto ho in mente di arrivare direttamente a Varna ma, dopo qualche ora di bordeggio controvento, cedo nuovamente alla stanchezza e calo l'ancora davanti a Capo Shabla, in acque bulgare, quindi da clandestino. Ma chi le ha inventate le frontiere? Il mare è libero, l'acqua scorre senza barriere nè confini, sarebbe logico che anche le barche che ci scivolano sopra godessero della stessa libertà. Decido di fregarmene: il ridosso è buono, siamo in ambito UE e comunque resto a bordo, se mi dicono che non posso stare, levo l'ancora e vado via. Il profumo del mio amato frittatone di cipolle si spande nell'aria mentre mi godo il fresco della sera in pozzetto. L'indomani, con tutta calma, mi sposto a Varna dove c'è il più rozzo e piacevole Yacht Club di tutto il Mar Nero occidentale e dove mi raggiunge Roberto, che dividerà con me la lunga rotta per tornare in Egeo.
 
Notare la data di morte
In Turchia, intanto, a pochi giorni dal tentato golpe che secondo le stime ha causato circa trecento morti, le cose stanno prendendo la piega che si poteva supporre, anzi temere. La reazione di Erdoğan non si è fatta attendere ed è più cruenta e capillare del previsto. Secondo la stampa, decine di migliaia di persone stanno subendo un duro processo di epurazione, con l'ovvio pretesto di perseguire i golpisti. La scure del potere pare si stia abbattendo non solo sui militari coinvolti ma anche su insegnanti, magistrati, impiegati pubblici e amministratori con una rapidità tale da far sospettare che le liste di proscrizione fossero pronte già da un pezzo. Qualcuno comincia a sussurrare che si sia trattato di un golpe fasullo, forse architettato dallo stesso Erdoğan per avere poi mano libera per fare quello che con gli strumenti democratici non è riuscito a fare finora. È un vecchio giochino che in passato ha funzionato spesso qua e là nel mondo. I kemalisti sono ormai nell'angolo, incapaci di reagire, prostrati; in molti temono che sia davvero la fine della Turchia come l'abbiamo conosciuta, come è stata negli ultimi cento anni. Quella Turchia che a me è piaciuta subito quando, quindici anni fa, vi ho messo piede per la prima volta, restando colpito dalla vitalità della sua società, dalla fierezza delle proprie tradizioni e da quella sua forma di laicismo che considererei un enorme progresso sociale se lo vedessi, anche in misura minore, applicato in Italia.
 
Stesso porto dell'andata
Con l'aiuto di Roberto preparo Piazza Grande per affrontare questi giorni di mare: riempiamo i serbatoi dell'acqua e del carburante, facciamo una ricca cambusa e un check dell'attrezzatura velica e del motore. Malgrado generalmente deprechi l'uso smodato dei social network, decido di creare una pagina su Facebook dove raccontare, più o meno in tempo reale, la navigazione che sto per effettuare e nel quale coinvolgo molti amici, velisti e non. Lo scopo che mi prefiggo è duplice: far scattare il prima possibile l'allarme se dovessero sorgere dei problemi e avere una sorta di compagnia virtuale lungo la rotta. Raccolgo subito molti consensi e incitamenti: non c'è che dire, il calore umano, anche se mediato dalla telematica e da questa reso impalpabile più di quanto non sia già di suo, è una carica formidabile quando si deve affrontare un ostacolo, un momento difficile. Con questo bel viatico lasciamo Varna alla volta di Tsarevo, ultimo porto bulgaro, dove facciamo l'uscita formale dal paese. Speravo di avere un pezzo di carta dove fosse scritta a chiare lettere l'isola di Limnos quale porto di destinazione ma la poliziotta che con zelo sale a bordo per controllare che non ci stiamo portando via qualche bulgaro, nascosto sottocoperta, solo su mia insistenza corregge a penna la clearance, scarabbocchiandoci sopra "GR". Eccellente, davvero un documento formale da mostrare alle autorità turche per dimostrare che non ho intenzione di fermarmi nel paese.
 

Beyoğlu, Pera, Galata.
A Tsarevo ho ritrovato Eugenio, il direttore del porto, che ama l'Italia e e la nostra musica leggera. Chiacchierando con lui, mi racconta di essere di origine greca da parte di madre e armena da parte di padre ma di sentirsi comunque profondamente bulgaro, secondo una mescolanza di popoli e razze molto comune dei territori dell'ex-impero ottomano. Gli ottomani hanno dominato la Bulgaria per circa cinque secoli, adottando, qui come nel resto dell'impero, una politica di conquista che mirava soprattutto all'imposizione di tasse piuttosto che alla conversione religiosa o all'assimilazione dei popoli conquistati. In pratica, a differenza dei regni occidentali della stessa epoca, il sovrano chiedeva soldi e lealtà ai suoi sudditi ma non pretendeva di modificarne i comportamenti o le pratiche quotidiane, al punto che spesso le più alte cariche dello Stato, visir, pasha e kapudan pasha (ammiraglio) erano ricoperte da cristiani assoggettati durante qualche guerra di conquista. Non era inoltre prevista la linea di discendenza secondo primogenitura, quel diritto che impediva a grandi talenti dell'occidente di esprimersi in casa propria come invece riuscivano a fare emmigrando in Turchia, così come oggi avviene verso altri paesi del mondo. È famoso il caso di Alvise Gritti, figlio del doge di Venezia, in turco chiamato Beyoğlu, ossia figlio del bey (signore) che nel Millecinquecento si trasferì alla corte del sultano dove ricevette cariche e onori. Ancora oggi a Istanbul c'è un famoso quartiere che porta il suo nome. In buona sostanza, nell'impero ottomano vigeva un multiculturalismo che ha consentito a etnie e fedi diverse di convivere pacificamente per secoli seppure sottomesse al dominio del sultano. A nessuno è stata mai imposta la conversione forzata come invece è avvenuto spesso in Europa occidentale, si pensi ad esempio al caso dei marrani nella Spagna dei Reyes Catolicos, i re cattolici. Tanta tolleranza ha consentito migrazioni di popolazioni che hanno finito, se non per mischiarsi fra loro, per lo meno con il condividere lo stesso territorio. Il nazionalismo, quella corrente di pensiero politico che pretende che il diritto di occupare una terra sia riservato ad un solo popolo, si è affermato in Turchia nel Novecento, con il movimento dei Giovani turchi, provocando lì come altrove i disastri che sappiamo: pulizie etniche o genocidi. A ben guardare, molti degli attuali conflitti in Medio oriente sono figli della stessa logica di spartizione, spesso a tavolino, seguita al crollo dell'impero ottomano.

(acquarello di Patrizia)

5 commenti:

  1. E' sempre un piacere leggerti e condivido la tua analisi sulla democrazia. Purtroppo le tue considerazioni sul "metodo Erdoğan" mi ricordano molto il "metodo Renzi"... con le dovute differenze riguardo alla violenza.
    Buon vento Luciano
    Claudio

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  2. Racconto piacevole, bello e come sempre ottimamente narrato, questa volta forse anche meglio del solito visto il tuo amore per quei luoghi.

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  3. Proprio durante le ore del tentato golpe ero in contatto con il mio amico proprietario del caicco sul quale spesso passo le vacanze in turchia. Inizialmente era molto contento. Poi, quando si è saputo che il golpe stava fallendo, ha immediatamente capito che era tutta una finta. Erdogan lo conoscono bene...

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  4. Descrizione e analisi veramente esaustive!

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