venerdì 26 luglio 2013

Psara, silenzio e vento


In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa.
(F. De Andrè/E. Lee Masters)


La bellezza è negli occhi di chi guarda, è assiomatico. Ciò non significa che la bellezza è creata dalla fantasia dell'osservatore, ma che per apprezzarla bisogna avere l'animo predisposto a farlo. Passeggio lungo la strada che esce dal piccolo centro abitato di Psara, un'isola minuscola con circa 200 abitanti che si trova di fronte Chios, e costeggiando una spiaggia deserta osservo il vento sollevare la sabbia fina, pettinandola fino a formare le classiche piccole coste che connotano gli arenili non calpestati da piede umano. Ci sono solo io, è mezzogiorno, il sole è a picco ma il vento rende l'aria piacevole e fresca, oltre che secca. Guardo il piccolo vortice che si allarga fino a dissolversi e non vedo siccità nè desolazione, vedo piuttoso l'energia vigorosa di Madre Natura, odo il silenzio, l'assenza di rumori artificiali, meccanici o elettrificati, sento il sibilo del vento foriero di vita, il calore del sole sulla mia pelle, provo gioia.

Vita nuova!


Tre nuove batterie, 1 motore e 2 servizi. Fatto anche il tagliando al Volvo Penta, cambiato olio motore, olio sail drive, cartuccia olio e filtro gasolio.

martedì 23 luglio 2013

Mitilene: Saffo perdonali.


Ille mi par esse deo videtur.


(Catullo, Carmina, 51)

Mi risuona nella testa il celebre carme di Catullo, riadattamento (o saccheggio) dei bellissimi versi di Saffo: lui mi sembra un dio. Sei parole in tutto, mezza frase che basta però per definire in modo chiaro un contesto di amore perduto, forse di gelosia, sicuramente di sofferenza. Mi risuona in testa oggi, qui, in questo mare che bagna Lesbo, il luogo dove Saffo è nata; ma mi risuonano in testa da decenni, dal ginnasio, i versi dei due autori classici che più ho amato negli anni delle superiori. Difficile per un qualunque giovane preda della furia ormonale dell'adolescenza non essere estasiato da una poetessa di 2500 anni fa che si dichiara "innamorata dell'amore".

venerdì 19 luglio 2013

L'Eolia, 30 nodi di certezze


Se è vero, come spesso è vero, che nomina sunt consequentia rerum, il tratto di costa turca chiamata Eolia è tutto un programma. Ma siamo velisti, il vento ci è necessario come il pane, come l'acqua, come l'aria che respiriamo, è vento quello che ci entra nei polmoni, che ci accarezza la pelle o ce la fa accapponare quando soffia troppo forte per le misere forze nostre; perché siamo nulla di fronte al vento, siamo polvere spazzata via, siamo molecole che si mescolano all'acqua nebulizzata dal vento sulla superficie del mare. Il vento è vita, è energia, scuote gli animi, scompiglia le chiome degli alberi o ne plasma il fusto piegandolo al suo corso, vento rabbioso o gentile, vento di terra, di mare, vento che asciuga le lacrime di chi nel vento muore, di chi nel vento vive.

domenica 14 luglio 2013

Dietrofront, prima che il Mar di Marmara si svuoti


Sorseggiando una Efes gelata, l'ottima marca turca di birra, osservo dall'alto di una terrazza che offre un'ampia veduta della penisola del Corno d'oro il fitto andirivieni di traghetti alla fermata prospicente il ponte di Galata. E' incredibile con quanta velocità e perizia vengano effettuate le manovre di accosto e di attracco. Uno va, un'altro viene, incessantemente, per collegare le due sponde del Bosforo in diversi punti, trasportando ogni giorno decine di migliaia di persone che saltano con indifferenza dall'Asia all'Europa, là dove la contiguità sfuma, fino ad annullarla, qualunque diversità, sia del territorio che degli individui. Osservo il brulicare di gente, variegatà umanità scompigliata nei capelli dal forte vento, ed osservo me stesso, scompigliato nei pensieri forse ancora di più.

lunedì 8 luglio 2013

Nel Bosforo, arteria pulsante di Istanbul


Istanbul è. Alcune città, alcuni luoghi, sono qualcosa, Istanbul è e basta. Il Bosforo l'attraversa tagliandola in due fisicamente, dividendola fra due continenti, ma senza spezzarne la continuità, è un mare che anzi unisce le due sponde, con traghetti e ponti, con milioni di persone che ogni giorno l'attraversano nei due sensi, incessantemente, instancabilmente. Ma la continuità di Istanbul non é monotonia, perché Istanbul è tutto ed il suo contrario, è il contrasto inimmaginabile, lo stridere fastidioso degli opposti, è est, è ovest, è Asia ed Europa, è modernità e tradizione, é ricchezza e povertà estreme. 16 milioni di persone ne fanno, per dimensione, una metropoli asiatica e infatti lo è, ma quanta Europa c'è a Istanbul, antica e moderna! Istanbul siamo noi, Costantinopoli, ma anche gli Ottomani, Bisanzio. Istanbul è passato e presente

giovedì 4 luglio 2013

Mar di Marmara

Sono le due del pomeriggio quando lascio il marina di Canakkale. E' stata una sosta tecnica, dovevo fare i documenti di ingresso in Turchia, ma ero anche curioso di visitare questa cittadina. E' piuttosto pulita ed ordinata ed ha un centro piacevole per una passeggiata, ho fatto bene a fermarmi. Sul lungomare fa bella mostra di sè un'enorme riproduzione del cavallo di Troia, che dista 30 km da qui, pare usata per il film Troy e poi donata dalla produzione alla città. Il transit log è costato 55 euro di spese vive e 30 di commissione per il tizio che si è occupato della cosa. Il portolano di Heikell e Radio Banchina parlavano di cifre molto più alte, addirittura consigliavano di fare le pratiche altrove, m'è andata bene. Nel marina ho conoscuito Sammy, un poveretto semiparalizzato da una grave malattia, come mi ha spiegato nel suo ottimo inglese ma che io non ho capito bene, nè indagato troppo. E' stato imbarcato per molti anni sulle navi da crocera, ha avuto due mogli, la seconda l'ha lasciato quando si è ammalato. Vive con un piccolo sussidio dell'assistenza pubblica e si arrangia con qualche traduzione. Passa le sue giornate nel marina, sorridendo a chi arriva, facendo buon viso al cattivo gioco che la vita gli ha riservato. Ama l'Italia, mi fa sentire tutta I love you in Portofino dal cellulare, ha voglia di chiacchierare e anche io, decido di offrirgli la cena, accetta di buon grado, andiamo insieme in un ristorantino turco, shis kebab, o quello che è, qui tutta la carne finisce con l'essere chiamata kebab. It's a shitty life this way, mi dice ad un tratto gelandomi; non so cosa dire, nascondo il mio imbarazzo cambiando discorso. Quando parto mi lascia il suo biglietto da visita, Business consultant, cerca di convincermi ad aprire una pizzeria o importare macchinari per la raccolta meccanizzata delle olive. Chissà, magari la dritta è buona.
L'idea è di uscire dai Dardanelli e mettermi all'ancora per la notte, ho individuato un buon punto sul lato nord, poche miglia dopo Gelibolu, Gallipoli, ne devo fare 30 per arrivarci, vista l'ora non posso indugiare molto. Il traffico di grandi navi sembra oggi ridotto, meglio così, navigherò più sereno, anche se un paio di quelle belle grosse mi passano da poppa a non più di 100 metri. Vedo l'appendice della loro prua fendere l'acqua alzandone una quantità enorme, poi un muro d'acciaio oscura la mia visuale per un paio di minuti, come un'eclissi, lasciandomi infine una scia maleodorante di fumo quando mi trovo sottovento ad esse. Navigare in questo canale è veramente antipatico, la corrente ed il vento hanno un'incostanza incredibile che costringe ad aggiustamenti continui della velatura ed a incessanti correzioni al pilota automatico, non trovo praticamente mai pace. Schivo un paio di traghetti che uniscono Gallipoli alla sponda opposta, sentendomi come il bersaglio di un videogioco, poi finalmente sono fuori, il Mar di Marmara mi accoglie con un bellissimo tramonto ed un vento che si è fatto lieve e mi accarezza fino a che trovo il posto giusto per calare l'ancora. Sono vicino ad un paio di petroliere alla fonda, di fronte a me un bellissimo paesaggio fatto di campi coltivati e dolci colline, potrebbe essere la Toscana, tanto è aggraziato. Il sole tramonta, rosseggiando sul mare, dopo cena cala il vento definitivamente ed io passo una notte un po' ballerina a causa un'ondina morta residua che fa rollare Piazza Grande.

Alle 6 capisco che non riprenderò più sonno e mi alzo, pronto ad affrontare un altro pezzetto di questa lunga rotta. Mi restano un centinaio di miglia fino a Istanbul, voglio spezzarle in due fermandomi sull'isola di Marmara, la principale del piccolo arcipelago che da nome al mare che lo bagna. Però, anzichè nel porto principale, decido di puntare Asmalikoy, un porticciolo un po' sperduto di quelli che piacciono a me e di cui il portolano testualmente dice: uno scenario quasi inquietante che ricorda i luoghi immaginari descritti ne Il signore degli anelli. Dato che non ho visto nè letto Il signore degli anelli, decido di farmi una cultura in materia direttamente in loco e metto la barca in rotta.
Vela o motore? Me lo chiedo un centinaio di volte durante la giornata, mai una regolazione risulta buona per più di 10 minuti, il vento cambia continuamente di intensità, passando dai 5 ai 25 nodi e viceversa. Vado a motore, apro le vele, 5 minuti e devo prendere una mano di terzaroli, forse anche qualcosa in più se non voglio stare troppo sbandato, ma che dico, c'è calma piatta, riaccendo il motore, no meglio aprire almeno la randa... e via così per tutta la mattina. Sono questi i momenti in cui ringrazi la sorte di averti dato una barca con entrambe le vele rollabili, alla faccia della performance. Questi numeri quasi da circo li faccio in autostrada contromano. Mi spiego: tutto il traffico marittimo dal Mar Nero all'Egeo è regolato secondo il principio elementare di tenere la dritta, come in macchina. Quindi, chi va verso Istanbul sta a destra, chi viene sta a sinistra. Io però ero alla fonda sul lato sinistro, quindi per raggiungere la mia corsia di marcia devo forza tagliare quella del senso opposto, con molta cautela, visti i bestioni che viaggiano da queste parti, però devo farlo per forza. Un paio di navi, che tengo molto sotto controllo sia a vista sia sul radar (AIS), suonano la sirena quando sono a poche centinaia di metri da loro, nel timore che non le abbia viste e non dia loro la precedenza che gli spetta. Il forte suono, cupo e nasale, mi echeggia in testa rimbombando nelle trombe di Eustachio e facendomi sentire un po' come il matto della barzelletta, quello che aveva imboccato l'autostrada contromano. Quando finalmente sono nella mia corsia ho quasi voglia di cercare un Autogrill per pipì e caffè.
Ma se l'impatto con le navi è scongiurato, i loro effetti indiretti non sono da trascurare, primo fra tutti le onde che sollevano. Una volta stabilita l'altezza media che generano, si sta tranquilli, fino a quando passa un bestione che, per imperscrutabili ragioni ne alza un treno molto più alto. Me ne sto spaparanzato al sole quando vedo un frangente che non dovrebbe esserci. E' un attimo, afferro un tientibene, Piazza Grande sbatte la prua un paio di volte poi... noooooo! I due piccoli oblò di prua sono aperti! Ecco trovato un passatempo per la prossima ora, asciugare tutta l'acqua che è entrata, meno male che era chiuso il passauomo, sennò c'era da sgottare per due giorni.

Comunque sia, ho il mare di prua e sono costretto a poggiare, che sia vela o sia motore, non si riesce a tenere la rotta sull'isola di Marmara. Vado avanti così per alcune ore, fino a quando il vento mi da un "buono" inaspettato e orzo di parecchi gradi, decidendo di passare nello stretto fra l'Isola di Avsa e l'isolotto che gli sta di fronte. Controllo la carta, controllo il portolano, passaggio tranquillo. All'orizzonte però vedo una lingua orizzontale bianca che sembra proprio un frangiflutti. Rallento l'andatura, anche perchè sulla sinistra c'è una meda che segnala una secca pericolosa, e solo quando sono molto vicino vedo che c'è un piccolo porto non segnalato da nessuna parte. Possibile? Eppure è così! Viene quasi da credere a Schettino che dice che Le Scole non erano sulla carta del Giglio... no, vabbè, non esageriamo. La navigazione procede senza altri intralci, mi guardo attorno, mi avvicino alla costa per osservarla meglio, è molto bella, molto verde, poco edificata e con scogliere a picco che si alternano a piccole spiagge. Mi domando perchè il Mar di Marmara abbia una così cattiva fama, il paesaggio è veramente greadevole, poco il turismo terrestre, esclusivamente turco, e praticamente inesistente quello nautico, in tutta la giornata ho incrociato sì e no un paio di barche. Purtroppo è pieno fino all'inverosimile di meduse, di un tipo che non ho mai visto altrove, impossibile anche solo fare un tuffo. E pure l'acqua non è di un colore proprio invitante...

Verso le 5 entro nel porto di Asmalikoy, praticamente deserto, qualche barchino da pesca su un lato, sull'altro solo una vecchia ciabatta di legno con un palo in coperta ed una badiera russa a brandelli a poppa. Decido di mettermi all'inglese, come i russi, ma un vecchietto in banchina mi fa segno di mettermi di poppa: hai visto mai occupassi troppo spazio! Mi prende le cime, fa la gassa anzichè ripassarmele a doppino, ma non importa, poi mi dice qualcosa in turco, che ovviamente non capisco. Allora chiama in soccorso un tizio che sta poco più in là con la sua barca, che arriva e mi parla in tedesco. Niente, non ci siamo proprio. Provo ad azzardare una domanda, se c'è un'autorità portuale a cui va comunicato l'ormeggio. E' il loro turno ad essere perplessi. La comunicazione si sblocca quando mimo il saluto militare, non s'è mai visto un italiano non riesce a farsi capire con qualche gesto.
Alla fine anche io capisco loro, bisogna pagare per l'ormeggio. Per dirmi la cifra arriva in aiuto la figlia in età scolare del secondo tizio, che sa contare in inglese: 30 lire turche o 12 euro che dir si voglia. Mi pare sinceramente troppo, mostro un biglietto da 20 lire, il vecchietto fa segno di sì, le prende e sparisce via. Scendo a terra per qualche foto, il tizio con la bambina anglofona mi dice "Turkish beer", non ho idea di cosa voglia dirmi, ma per non sapere nè leggere nè scrivere rispondo yes. Lui stappa una bottiglia e me la passa con un sorriso. Vorrei dirgli che noi a Portofino o a Taormina facciamo lo stesso, appena arriva un turco con cui non riusciamo neanche a dire due parole gli offriamo da bere. Ma c'è l'ostacolo linguistico e forse per questa volta è meglio così. Più tardi ricambio la cortesia con mezza caciottina greca che ho comprato l'altro giorno a Lemnos: typical italian, gli dico, tanto che ne sa, ti pare che se ne accorge. Mi sorride, gli sorrido, usciamo contenti entrambi da questo scambio culturale. Spero solo che i greci non insaporiscano il formaggio con il lardo o qualche altro grasso animale proibito dal profeta, nel caso che Allah mi perdoni per aver condotto sulla via del peccato una sua pecorella.

Se tutti i paesini italiani hanno la loro chiesetta con il suo campanile che svetta fra i tetti, i paesini turchi hanno la moschea con il minareto. Belli entrambi, ma se nel primo caso si patisce qualche scampanata, nel secondo si subisce un vero e proprio martirio acustico. Cinque volte al giorno, ad orari prestabiliti, il muezzin, anzi un nastro registrato o forse negli ultimi tempi un Ipod, ricorda a chi se lo fosse scordato che Allah è grande. Una di queste litanie è schedulata per le 4.30 del mattino, ad un volume che farebbe sentire a casa un disk-jokey. La serie di gorgheggi mistici va avanti per diversi minuti, con pause di alcuni secondi fra un fraseggio musicale e l'altro, illudendo ogni volta che sia finita lì. Verrebbe voglia di tirargli qualcosa o di andare a svegliare l'imam quando se la dorme profonda lui.
Alle 7 e mezzo, dopo l'immancabile caffè, recupero l'ancora portandomi via alcuni malloppi di fango ed alghe putrescenti, appena fuori dal porto mi tocca calarla in mare e sciaquare bene tutto perchè l'odore non è dei più gradevoli. C'è un filo di vento, ma esattamente di prua, metto il motore a 1800 giri ed imposto il pilota automatico per rimettermi in carreggiata, ovvero inserirmi di nuovo nella corsia di navigazione obbligata per chi naviga in queste acque. C'è il solito traffico di mercantili, ho sempre un occhio a 360 gradi e l'altro sul radar, la navigazione procede molto tranquilla, mare calmo e navi attorno sotto controllo. Incrocio anche una grossa nave da crocera e riesco a captare la sua rete WIFi, purtroppo protetta da password inespugnabile. Vado avanti così per alcune ore, facendo una rotta leggermente più a nord rispetto al Bosforo, dato che il West Istanbul Marina, il porto che ho scelto per il mio soggiorno, è a circa 20 miglia dal centro della città. L'ho scelto perchè è l'unico che la cassa di bordo può permettersi, è una struttura nuovissima e, come si dice in questi casi, dotato di tutti i confort.

Ben presto quindi, il mare che poco fa era tempestato di enormi navi, si svuota lasciandomi solo su un acqua appena increspata e a tratti completamente abbonacciata. Man mano che mi avvicino, rifiuti galleggianti di varia natura punteggiano la superficie, gli effetti di una città di 16 milioni di abitanti si sentono a diverse miglia di distanza. La giornata di oggi si annota come una delle più noiose, un solo brivido quando sento la radio chiamare un'indefinita "sailing boat, sailing boat, this is..." e il nome del chiamante. Schizzo in coperta, hai visto ma che qualcuno col trasponder spento mi stia venendo addosso! Ma non c'è nessuno, non chiamavano me, mi rimetto comodo.

Verso le 16 sono sottocosta, il marina si trova in un'area che si divide fra lottizzazioni di edilizia popolare ed enormi gru per la movimentazione dei container. Entro nel marina, mi viene incontro il gommone di servizio con a bordo il cortesissimo personale che mi assiste nell'ormeggio, gli lancio le cime e mi sistemo bene. Mi chiedo se sono arrivato oppure no, nel senso che tecnicamente sto a Istanbul, la mia meta era questa, ma in realtà sto in una specie di cattedrale nel deserto, mi sentirò arrivato quando attraverserò il Bosforo a vele spiegate, per quando pare che dal ponte che unisce le due sponde della città in poi sia vietata la navigazione a vela. La sera, fra lo stridere ed il clangore delle gru accanto al marina, guardo sul monitor la traccia che ho percorso in questo mese di navigazione. Sono circa 1.200 miglia, veramente tante, fatte quasi ininterrottamente, con pochissime soste. Ma non mi sento stanco, nè fisicamente nè moralmente, vado avanti, sento che potrei farlo per molto ancora. Anzi, credo proprio che lo farò.

lunedì 1 luglio 2013

I Dardanelli: giocare a bowling nel ruolo di birillo


"E sentiamo Massinelli,
il mio re degli asinelli,
dove sono i Dardanelli?
Professore, io non lo so, lo dica lei.
"

La prima volta che ho sentito nominare i Dardanelli è stata da piccolo ascoltando mio padre che canticchiava questa canzone della sua infanzia (www.youtube.com/watch?v=8lOMVVG3Yps). Dato che nella strofa precedente il professore interroga la signorina Maccabei chiedendole dove sono i Pirenei, per anni ho creduto che i Dardanelli fossero anch'essi una catena montuosa. Credo che la verità mi si sia rivelata non molto tempo fa. La scoperta che si tratta del medesimo pezzetto di orbe terraqueo che a scuola veniva indicato con il nome di Ellesponto è poi cosa per me cosa veramente recente. Per i Turchi è, semplicemente Canakkale Bogazi, lo stretto di Canakkale, il primo porto che si incontra sulla sponda anatolica entrando dal Mar Egeo. Di fronte, 20 miglia più avanti, Gelibolou, la Gallipoli della terribile sconfitta del 1915 subita dalla Triplice, costata 250.000 morti sul versante anglo-francese e 150.000 su quello turco e che è passata alla storia col nome di Campagna dei Dardanelli. Nel goffo tentativo di forzare il blocco navale e penetrare in campo nemico, gli alleati incapparono in uno sbarramento insuperabile e vennero ricacciati indietro dall'esercito Ottomano guidato dal giovane colonnello Mustafà Kemal, poi passato alla storia come Ataturk, il fondatore della Turchia moderna. A Piazza Taksim, in questi giorni, i dimostranti inneggiano a lui, senza di lui la Turchia sarebbe oggi tutt'altra cosa, ben peggiore.


E' proprio Canakkale la mia meta, ma le mie intenzioni sono assolutamente pacifiche, la mia Campagna dei Dardanelli sarà tutta tesa a superare due soli ostacoli (non voglio dire nemici, fanno in fondo semplicemente il loro mestiere): il vento e la corrente. Entrambi forti, entrambi contrari per chi entra. Molta cautela quindi, potrebbe non essere una passeggiata, ma come al solito la mia filosofia è: dato che non me l'ha ordinato il dottore, se non ci si riesce, giro la prua e riprovo il giorno dopo o quando le condizioni meteo lo consentiranno.
La mattina mi sveglio alle 6 e mezzo, apro il tambuccio, bonaccia totale, si prevede smotorata, almeno all'inizio. Invece nel breve tempo di un caffè si alza una leggera brezza, tanto che quando salpo l'ancora e mi metto al timone l'anemometro segna 60 nodi. 60 nodi??? Proprio ieri ho notato che in testa d'albero le alette del Windex si sono piegate e la freccetta incastrata fra di esse, se ora mi molla pure la stazione del vento... Poi però mi dico: ma tutte 'ste diavolerie, sulla cui utilità non si discute, sono proprio indispensabili? Quando avevo il Laser, una piccola barchetta lunga poco più di un surf, la mia stazione del vento si riduceva ad un pezzetto di nastro magnetico saccheggiato da una vecchia videocassetta e in tanti anni non s'è mai rotta. Su Piazza Grande ho i guidoni alle crocette che possono svolgere la stessa funzione in modo egregio, saranno loro il mio Windex durante la navigazione di oggi. E quello che non faranno i guidoni, lo faranno le mie orecchie. Avete mai provato a sentire il vento con le orecchie? Muovete la testa lentamente, quando siete perfettamente nel suo letto, il vento fa un rumore diverso, quella è quindi la direzione da cui proviene.

Alzo le vele e mi metto in rotta, non sono 60 nodi, ma 20 abbondanti sì, lo dico con certezza perché miracolosamente l'anemometro torna a funzionare. Navigo di bolina stretta, c'è mare, sono costretto a poggiare qualche grado altrimenti lo scarroccio vanificherebbe ogni mio tentativo di avanzare. Saggiamente ieri ho girato sul lato nord di Lemos, proprio per avere possibilità di poggiare nel caso l'andatura al vento fosse risultata oggi troppo stretta. Se avessi girato sul lato sud, più breve, oggi mi troverei costretto a bordeggiare, faticando non poco visto che c'è almeno un metro d'onda. Man mano che mi avvicino il mare cambia colore,dal blu intenso dell'Egeo greco, al grigio verde che mi ricorda tanto le tristi acque di casa, Fiumara Grande, la foce del Tevere. Decollando dall'aeroporto di Fiumicino e guardando in basso, si nota una specie di enorme fungo marroncino, sono i detriti ed il fango trasportati dal fiume e sputati in mare, unitamente ad una cospicua dose di inquinanti di ogni genere. I Dardanelli non sono un fiume, ma sputano anche loro acque sporche, inquinate, provenienti dagli scarichi delle tante industrie e metropoli che affollano le sponde del Bosforo e del Mar Nero. Solo Istanbul conta 16 milioni di abitanti, poi ci sono Odessa, Sebastopoli, decine e decine di milioni persone che tutte le mattine si alzano e fanno i loro bisognini che nella maggior parte dei casi arrivano in mare senza subire alcun processo di depurazione. L'idea di galleggiare sulla diuresi turco-exsovietica non mi esalta per niente, cerco di non pensarci e mantenere la rotta.

Il vento aumenta, sfiora i 30 nodi e gira leggermente verso nord, in modo quindi favorevole, posso orzare qualche grado. Purtroppo così mi trovo il mare esattamente sulla prua, sono onde corte e ripide, veramente antipatiche. Piazza Grande su alcune sbatte, su altre infila la prua, che viene leggermente sommersa per poi riemergere sollevando acqua e schiuma che spazzano la coperta. Benedetto sprayhood, non prendo una goccia, resto completamente asciutto! Mi accorgo che la manica a vento, o dorade come la chiama qualcuno, della cabina di prua non è stata girata, c'è il rischio che qualche secchiata d'acqua mi finisca sul materasso. Controvoglia metto la cintura di sicurezza e vado a prua per orientarla verso poppa. Nonostante il vento sia girato, continuo a scadere in latitudine, evidentemente lo scarroccio è notevole con questo mare, oppure gli effetti della corrente dei Dardanelli comincia a farsi sentire, secondo il portolano si avvertono anche a 15 miglia di distanza.

Tengo continuamente d'occhio l'AIS, lo strumento che mi indica sul monitor tutto il traffico marittimo intorno a me. La carta elettronica è cosparsa di triangolini colorati, tutti sulla direttrice dello stretto, chi in un senso chi nell'altro, come insetti in processione. Per il momento preferisco tenermi leggermente discosto, qualche miglio a nord, in modo da lasciare acqua sottovento fra me e le tante navi, spesso non individuabili a occhio nudo. La mia posizione sulla carta è rappresentata con una piccola barchetta rossa; davanti, una freccetta indica il punto dove mi troverò fra 20 minuti. Data l'incostanza della velocità, la freccetta si allunga e si accorcia continuamente, sembra una linguetta, piccolo pungiglione. Ecco, mi piace immaginarmi così, una piccola ape operosa che avanza in mezzo a nuvole di insetti molto più grandi di lei, lenta e costante, imperturbabile ma pronta a tutto. In un momento in cui il mare allenta un pochino la presa, mi faccio un caffè. Mentre lo sorseggio penso che sto bevendo un caffè italiano, su una barca tedesca, navigando in acque greche, con la prua rivolta verso la Turchia mentre lo stereo mi manda a tutto volume Across the universe degli inglesi Beatles: mi sento cosmopolita quando ammaino le vele ormai inutili ed accendo il Volvo Penta, riponendo nei suoi 29 cavalli il destino mio e della mia Campagna dei Dardanelli.

A poche miglia dal canale, accosto deciso a dritta. La circolazione nei due sensi è regolata come sulle strade, bisogna tenere la dritta, la destra, se continuassi per questa rotta farei la fine di quelli che imboccano l'autostrada contromano. La mia velocità nel frattempo è calata parecchio, col motore a 2200 giri faccio 4 nodi scarsi, ne dovrei fare 7 se non ci fosse la corrente; non è calata invece quella delle navi che percorrono la mia stessa "corsia", sono tutte tra i 10 ed i 15 nodi, il che vuol dire che sarò come un'ape sì, ma Piaggio, su un autostrada percorsa da autoarticolati. Ho un leggero brivido lungo la schiena, mentre mi preparo a subire sorpassi a colpi di clackson. Osservo le navi intorno a me, sono tante, sono enormi, lunghe più di 200 metri, impressionanti. Quelle in ingresso sono tutte molto alte al galleggiamento, il contrario di quelle in uscita, segno evidente che entrano vuote ed escono piene, segno evidente che l'occidente compra più di quello che vende, segno evidente che l'occidente continuando così...
Ammaino la bandiera greca ed alzo quella turca e quella gialla, la lettera Q dell'alfabeto delle comunicazioni marittime. Indica che non ho persone malate a bordo e chiedo libera pratica. Spero non costituisca impedimento il forte mal di pancia che ho da un paio di giorni, eredità, credo, dell'unico ristorante che mi sono concesso, dove ho ordinato agnello e mi sono ritrovato nel piatto una specie di lesso, un pezzo di carne ricco di tessuto connettivo. Chissà se è lui il colpevole dei miei crampi.
Scorgo a sinistra l'imponente monumento di guerra turco, una brutta ed enorme colata di cemento che celebra la vittoria di Ataturk, sono proprio sull'uscio! Cerco di mantenere una rotta più costante possibile, in modo che le navi che mi superano non abbiano esitazioni se farlo a dritta a sinistra. Noto che accostano tutte con discreto anticipo, evitando di farmi pelo e contropelo, forse me la passerò meglio dell'Ape in autostrada. Più avanzo, più la corrente aumenta, è impressionante, faccio meno di due nodi pur sentendo il motore cantare alegramente. Provo a spostarmi più vicino la costa, il portolano dice che lì la corrente si avverte di meno. Se non altro in questo modo la prendo un po' di taglio, la velocità aumenta leggermente. Continuo ad osservare l'AIS, ogni tanto noto qualche freccetta che punta esattamente su di me e questo un pochino mi inquieta, soprattutto perchè io sono poco manovriero per via della corrente, le navi che mi puntano per via della loro enorme mole.
Ad un certo punto vedo sulla mia poppa un profilo sormontato da un enorme castello, o torretta, non so qual è il termine più appropriato. Sembra una portaerei, proprio dietro di me, proprio sulla mia scia, ad una velocità che lascia presagire un impatto nel giro di pochi minuti. Proseguo imperterrito, dando spazio a tutto il sangue freddo di cui sono capace. A poche centinaia di metri da me, il mostro accosta qualche grado, non è una portaerei, ma un cargo gigantesco, mi passa vicino, intravedo le sagome delle persone sul ponte di comando, dietro i vetri scuri. Torm Ismini si chiama, 228 metri, 13,4 nodi di velocità. Non è il solo grattacielo galleggiante che mi passa accanto, lo faranno parecchie navi, tutte con ampi margini di sicurezza devo dire. Ma quando le vedi da lontano che ti puntano, quando l'AIS ti avverte che fra poco sarai investito da un ammasso ferroso di dimensioni inimmaginabili, puoi solo metterti buono e sperare che la bestia abbia già pranzato, che sia sazia e che per questo le sue avide fauci ti grazieranno: oggi, almeno.
La corrente nel primo tratto la stimo sui 4 nodi almeno, poi cala leggermente quando lo stretto si allarga un pochino. In questo punto noto però che, malgrado la mia prua sia bene sulla rotta che intendo fare, il GPS mi da un percorso fuori asse di almeno 40 gradi, una numero enorme, evidentemente la corrente mi colpisce di fianco in modo molto più violento di quello che penso. Mi domando come fosse possibile avanzare in questo mare prima dell'invenzione della propulsione meccanica, fra corrente e vento, che è di nuovo sui 30 nodi, nessuna imbarcazione a vela può illudersi di mettere la sua prua verso est in queste acque. Non mi risulta nemmeno ci siano cicli di corrente entrante ed uscente, come nello Stretto di Messina, dove conoscendo gli orari si può sfruttare il movimento della acque a proprio favore. Remigio Zena, un genovese che nel 1875 ha pecorso a bordo di Dafne, un veliero di 12 metri, la mia stessa rotta, racconta che dopo un tentativo di ingresso nel canale, sono stati costretti a mettersi alla fonda ed attendere un rimorchiatore, loro ed un'altra quarantina di imbarcazioni di tutte le dimensioni. Ma un rimorchiatore è un qualcosa di motorizzato, prima ancora come si faceva a fare rotta per Istanbul, per la Crimea, per le tante città del Mar Nero?
Quando il canale si restringe, la mia velocità cala nuovamente. Canakkale è lì d avanti a me, la vedo perfettamente, ma a 2 nodi, 3 al massimo, ci vuole ancora tempo. Un windsurf, sfruttando il forte vento, mi sfreccia davanti alla prua, lo prendo come un buon segnale, un'immagine di svago che mi distoglie per un attimo dall'atmosfera mercantile che mi circonda da qualche ora. Poi, però, un sommergibile mi riporta a tutt'altra realta. Fra poco dovrò fare i conti anche col traffico perpendicolare al canale, quello dei traghetti che uniscono continuamente le due sponde della città, ma per questo genere di cose mi sono ben temprato attraversando più di una volta lo Stretto di Messina, questi a confronto sono vaporetti!
Sono quasi le sette di sera quando entro nel piccolo marina della città, raccolgo la trappa col mezzo marinaio, lancio le mie cime in banchina e finalmente eccomi in Turchia. Si fa per dire, perchè finchè non espleto le formalità di ingresso, non posso uscire dalla recinzione del porto, ben recintato e segnato come confine di stato. Ormai è tardi, gli uffici sono chiusi, se ne parla domattina, resto consegnato come al militare, con i turchi non si scherza, sono molto suscettibili sulle loro leggi. Canakkale, d'altra parte, non pare essere un posto da urlo, farò con calma un giro domani, quando mi lascieranno uscire di cella. Allah u achbar, urla il muezzin dall'alto di un minareto, ma la voce gracchia, è una registrazione, non ci sono più i muezzin di una volta, proprio come i marinai veri, quelli che facevano i Dardanelli senza l'ausilio di tecnologie moderne.